Dopo l'ennesimo tradimento del marito la moglie tenta di evirarlo senza
successo. Finisce invece per evirare il figlio e poi fuggire, scatenando
una reazione a catena incontrollabile. Il padre tenta in ogni modo di
restituire una sessualità al ragazzo, nel frattempo vittima di ogni
genere di abuso da parte dei coetanei, fino a far trapiantare il proprio
pene nel corpo del figlio. Ma la madre intanto ritorna a casa e la
tragedia familiare si aggrava ulteriormente.
Un titolo destinato a dividere e a far discutere, presentato come tale e
servito su un piatto d'argento per le polemiche in patria (dove il film
ha dovuto affrontare tre gradi di giudizio censorio e uscirà con
numerosi tagli) e alla Mostra del Cinema di Venezia. Il Leone d'Oro di Pieta non ha tolto a Kim Ki-duk la voglia di provocare con un cinema sempre più disturbante, ma Moebius
è un film che ama farsi odiare, in cui il gioco è troppo scoperto. Kim
mette in scena una vicenda chiaramente grottesca in maniera ancor più
grottesca, senza dialoghi e consegnandosi volontariamente e
ripetutamente all'ironia più crassa (la sequenza del pene calpestato dai
camion in corsa o le ricerche su Google in merito al trapianto di
genitali).
Osservando Moebius in chiave di esperimento si può quasi
apprezzare la volontà irridente nascosta in uno slapstick dell'eccesso,
affidato al digitale grezzo e disadorno di una videocamera, che rimanda
al porno comico nipponico del roman porno o del pinku eiga, quando non
al trash di casa Troma. Non è lecito sapere se Kim Ki-duk conosca la
Troma, è lecito interrogarsi sulla reale volontà di girare una farsa
grandguignol o di proseguire - come probabile - un discorso autoriale,
strapazzando così violentemente la propria poetica. Come in
un'autoparodia fino alle estreme conseguenze o un tentativo di tornare
sui temi portanti del proprio cinema - mutismo del protagonista
maschile, tragedia greca e complesso di Edipo, natura bestiale
dell'uomo, sessualità violenta, misoginia - spogliandoli di ogni orpello
stilistico (sceneggiatura compresa) e di qualsiasi forma di
autocontrollo. Il desiderio sessuale conduce inesorabilmente al dolore,
il nucleo familiare alla tragedia, il maschile e il femminino regolano
la propria relazione secondo leggi ancestrali brutali che precorrono
qualunque forma di civiltà. Ed è in questo senso che il sottotesto
misticheggiante si insinua, riprendendo in chiave farsesca il tema di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera
sulla necessità di purificarsi spiritualmente per ottenere la pace
interiore; come se il percorso di redenzione passasse necessariamente da
un'evirazione, sia essa simbolica o concreta. E il ricordo non può che
andare ad Arirang
- il film della cesura tra le due fasi principali della carriera di Kim
Ki-duk, sempre più importante per comprendere l'autore - e alle lacrime
che rigano il viso del regista mentre rivede Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera,
piangendo lo smarrimento della propria musa. Forse ci prendeva in giro
già allora, di sicuro si sta divertendo un mondo adesso, alle sue e alle
nostre spalle, nella più beffarda delle rivincite contro il mondo del
cinema. Fonte
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