Un'isola, un grande prato d'acqua su cui riposano tante piccole case
galleggianti, come tende per occasionali campeggiatori. Un ragazzo
appena fuggito da un orribile delitto è lì per togliersi la vita. La
custode/barcaiola (una Caronte al femminile) di questo strano parco
acquatico fa di notte la prostituta fra una casetta e l'altra. Ma poi
conosce lui, smette. Li attrae la disperazione reciproca, il bisogno di
cercare e trovare qualcosa. L'acqua che li divide è il liquido dal quale
tutti pescano, nel quale tutti depositano i propri escrementi, è il
simbolo della vita ma anche lo spazio che separa le esistenze l'una
dall'altra.
In due differenti momenti di disperazione cercano il
suicidio con un gruppo d'ami: lui mettendoselo in bocca, lei nel pube.
Ma come se fossero pesci finiscono per "pescarsi", incontrarsi, amarsi.
Si dovranno liberare da alcuni fardelli, prima: lui del poliziotto che è
venuto a cercarlo fin lì, lei della prostituta che si è innamorata di
lui. Le loro due "isole" di solitudine diventano una sola (solitudine?),
anche se questo non impedirà comunque il consumarsi di un (possibile)
dramma finale. Le due sequenze degli ami, insieme ad altre in cui i due
protagonisti squartano dei pesci e delle rane vive sono di violenza
espressiva inusitata. Si tratta peraltro di sequenze narrativamente
utili, soprattutto all'interno di un paesaggio umano e geografico così
silente. In piena linea con molto cinema orientale (da Tsai Ming Liang -
Taiwan - a Wong Kar Wai - Hong Kong), dove a parlare, a volte ad
"esplodere", sono i vuoti. Ma quei quattro pugni nello stomaco sono così
necessari, all'interno di una storia già di per sè intensa, forte,
"umana"? O saranno soltanto un deterrente alla distribuzione in Europa
di un film peraltro così bello?
Fonte
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